Ricostruzione del Ventesimo secolo, usando la pittura figurativa italiana come trait d’union con il passato. Il genere ‘divulgativo’ alimenta gli stereotipi?
Vittorio Sgarbi candidato alle prossime elezioni politich per ‘Rinascimento’, nelle liste di ‘Noi con l’Italia’ di Maurizio Lupi, in rappresentanza di una ‘quota centristi’ che fa parte della galassia del centro-destra si definisce ‘uno come noi’, ‘sentinella al confine tra centrodestra e centrosinistra’.
E questo non è solo un particolare nell’approccio di Sgarbi al mondo culturale, in primis come volto televisivo lanciato da Berlusconi negli anni 90, (successivamente sottosegretario in quota Forza Italia nel 2002) poi impegnato per la difesa del patrimonio culturale e paesaggistico italiano con testi come: ‘Un paese sfigurato’, 2003 (ed. Rizzoli), ultimamente prestatosi a mostre onnicomprensive di artisti ‘fai da te’ in location storiche.
Qualcosa di più interessante emerge da questi due ultimi volumi pubblicati da qualche anno e passati in sordina: ‘Il Novecento. Volume I. Dal Futurismo al Neorealismo’, 2018 e ‘Il Novecento. Volume II. Da Lucio Fontana a Piero Guccione’, 2019; ideali proseguimenti del precedente ‘Dal mito alla favola bella’ 2017 (editi da La Nava di Teseo). Testi che riprendono pittori e scultori dimenticati, sebbene presenti in spazi monumentali, chiese, piazze, edifici pubblici italiani con i quali formano un ‘unicum’ e che quindi andrebbero tutelati se è vero che l’Italia è ormai considerata nel mondo al pari di una risorsa archeologica/antiquariale.
La mole di nomi e tematiche affrontate lascia compiaciuti ma confusi per lo stile e il tenore delle opere menzionate: sorgono alcuni dubbi sulla scelta della pittura figurativa come trait d’union dall’antichità ai giorni nostri, cosa alquanto complicata da dimostrare senza che vi sia un assunto teorico di fondo che neghi l’evidenza di un mondo in continua evoluzione, con brusche interruzioni e ripartenze.
L’arte antica vive inoltre nella presunzione di esprimere esclusivamente se stessa, come gesto avulso dallo spazio e dal tempo, anziché loro espressione, tant’è che proprio nel Novecento sembra concludere la sua esistenza. Ed è questa consapevolezza che pone le antirealistiche ‘avanguardie’ -apertamente in conflitto con il nazifascismo-, alla base della nascita dell’Europa occidentale mentre i paesi dell’est, sono rimasti ancor oggi succubi del ‘realismo socialista’ o addirittura all’arte bizantina. Diciamo innanzitutto che l’Ue non ha affrontato questa anomalia con politiche culturali che mettessero in guardia dal ‘tradizionalismo’ che avrebbe aumentato il divario tra popoli da est a ovest, di una unione costruita solo finanziariamente, e male economicamente.
Alla luce di recenti fatti questi tomi appaiono come una vasta opera politica revisionista: tutte le esperienze artistiche italiane della seconda metà del Novecento che hanno a che vedere con l’area accademica (occupata dalla ‘sinistra’ oggi fagocitata dall’euro-tecnocrazia’ di Bruxelles) vengono toccate marginalmente o evitate: minimal, comportamentiste, azioniste, performative, concettuali, informali (quel mondo che un tempo poteva essere ricondotto a Venturi, Bonito Oliva, Argan, Celant, Maltese, Eco etc…), privilegiando pittori dallo stile in ritardo di mezzo secolo rispetto quelli del nord Europa. Le intenzioni revisioniste si palesano nel capitolo: ‘Premio Cremona: la critica contro l’arte’ in cui si vogliono sottrarre gli artisti dalle responsabilità del regime, quando tutti sembra abbiano fatto di necessità virtù, ottenendo partecipazioni alla Biennale di Venezia, cattedre o commissioni anche nel dopoguerra, chi più chi meno. Addirittura ridimensionato anche il ‘futurismo’, colpevole d’essere come gli altri ‘ismi’ europei troppo d’avanguardia’.
Ora, si presume che la teoria dell’autore nasca dalla considerazione che in Italia il pubblico consideri accettabile una pittura solo se ‘fatta bene’ -assimilando l’arte all’artigianato- ma al contempo accetti in maniera supina le grandi iniziative dell’arte contemporanea, perché espressione del potere. L’autore si vede così costretto a risparmiare i più rinomati artisti come Lucio Fontana, Alberto Burri o Piero Manzoni, quelli dei ‘tagli’, dei ‘sacchi’ e della ‘merda d’artista’, assurti ormai a icone pop, con voli pindarici come quello di paragonare i tagli sulle tele di Fontana alle pieghe raffigurate in un quadro del 1476 di Antonello da Messina.
La cosa può risultare fuorviante per entrambe le opere, e per effetto di una inversa analogia sarebbe lecito per esempio, affermare che San Sebastiano sarebbe stato il primo ‘body artist’ ossia che è lecito nell’arte tracciare qualsiasi equivalenza in barba a ogni presunta scientificità: qual é allora la finalitá del genere divulgativo se finisce per alimentare gli stereotipi?
In questa pretestuosa visione anti intellettuale e ‘politically correct’, di fronte al disinteresse generale per l’arte da parte del pubblico, l’opera di divulgazione dell’arte di Vittorio Sgarbi trova un suo perché: la situazione attuale è ben più grave e l’autore cerca di arginarla optando per un conservatorismo al limite del ‘negazionismo della modernità’. Letture che fanno per questo riflettere e preoccupare i numerosi italiani che si occupano di arte nelle università e nelle accademie (e non sono così condizionati politicamente, né stilisticamente) il che rende la ricostruzione per certi versi assurda. E’ assurdo che nel 2022 ci si ponga il problema dello stile che non sia unicamente quello della libertà d’espressione.
Oltre alla sudditanza delle istituzioni per i grandi artisti stranieri (ad es.: Koons, Hirst), l’ondata di ‘pop art’ dozzinale che ha invaso le gallerie, e il mostrificio a pagamento per artisti autodafé, l’Italia ha bisogno di proposte culturali valide ma al passo coi tempi, senza mettere troppo in mezzo la politica se non per sostenere l’arte italiana, giammai per dare direttive stilistiche. Non ce ne voglia il professore, a cui va tutta la nostra stima e simpatia.
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