Quando nel 1594, Raffaello giunse a Firenze, Lorenzo dei Medici era morto da più di un decennio, il suo successore era stato cacciato, e il gonfaloniere Pier Soderini aveva restaurato con la repubblica un regime borghese, ma l’arte era già avviata a uno stile aulicamente solenne e formalistico, e le direttrici del nuovo gusto convenzionale già erano state formulate e in generale accolte: oramai la trasformazione poteva procedere sulla via tracciata, senza bisogno d’ulteriori stimoli esterni.
Raffaello quindi non ebbe che da continuare nella direzione indicata dalle opere del Perugino e di Leonardo, e come artista originale non poté far altro che aggregarsi a quella tendenza, in séconservatrice, perché diretta a un canone formale astratto e immutabile, ma, in quella congiuntura storica, progressiva.
Del resto, a mettersi su questa via non gli mancarono neppure stimoli dall’esterno, benché ormai l’iniziativa non fosse più di Firenze.
Altrove infatti, quasi dappertutto in Italia, erano al governo famiglie con ambizioni dinastiche e atteggiamenti principeschi; e soprattutto a Roma, intoro al papa, si andava formando una corte vera e propria che si ispirava agli stessi ideali di fasto aristocratico delle altre e quindi considerava arte e cultura come elementi di prestigio. Nell’Italia divisa, lo Stato pontificio aveva assunto l’egemonia politica, i papi si sentivano eredi dei Cesari e in parte riuscirono anche a utilizzare ai loro fini di dominio le fantasie di un rinnovamento dell’antico splendore romano, pullulanti per tutto il paese. Veramente le loro ambizioni politiche rimasero insoddisfatte, ma Roma divenne il centro della civiltà occidentale e acquistò sugli spiriti un’autorità che la Controriforma non fece che approfondire e che si mantenne fin nella tarda età barocca.
Dopo il ritorno dei papi da Avignone, la città era diventata non solo un centro diplomatico, con ambasciatori e incaricati d’affari provenienti da ogni parte del mondo cristiano, ma anche un importante mercato finanziario, dove affluiscono e si spendevano somme favolose. Come potenza finanziaria, la Curia superava tutti principi, i signori, i banchieri e i mercanti dell’alta Italia; poteva quindi spiegare una maggior sontuosità e nel campo artistico venne di fatto assumendo la funzione di guida fino alla tenuta di Firenze.
Quando i papi erano tornati di Francia, Roma era tutta rovine, dopo le invasioni barbariche e le devastazioni provocate da secoli di faide nobiliari.
I Romani erano poveri e neppure i grandi dignitari ecclesiastici disponevano di mezzi tali da consentire una fioritura artistica che potesse competere con Firenze.
Durante il ‘400 la capitale pontificia non ebbe artisti propri: i papi dovettero ricorrere a forestieri, così chiamarono a Roma i più celebri maestri del tempo, fra gli altri Masaccio, Gentile da Fabriano, Donatello, l’Angelico, Benozzo Gozzoli, Melozzo da Forlì, il Pinturicchio, Mantegna; ma, finiti i lavori, essi se ne andavano senza lasciar traccia, se non nell’opera loro. Neppure sotto il pontificato di Sisto IV (1471-’84), quando, per i lavori di decorazione della cappella papale, per qualche anno Roma fu veramente un centro di attività artistica, si costituì una scuola o una tendenza con propri caratteri, questa comincia ad esistere soltanto sotto Giulio II (1503-’13), dopo che Bramante, Michelangelo e infine Raffaello si sono stabiliti a Roma, ponendo il loro genio al servizio del papa. S’inizia allora quell’incomparabile attività artistica il cui risultato è la Roma monumentale, quale ancor oggi ci appare: non solo il massimo, ma l’unico monumento veramente rappresentativo del ‘500, che poté sorgere solo grazie alle eccezionali condizioni offerte dalla resistenza papale. Mentre il gusto quattrocentesco era stato in prevalenza mondano, la nuova arte che ora nel ‘500 di vede nascere e definirsi è un’arte ecclesiastica, tuttavia improntata a solennità maestosa, a potenza e dominio, invece che a interiorità e misticismo. Alla profondità del sentimento cristiano e al suo distacco dal mondo subentra una freddezza altera, e un’espressione di superiorità fisica e intellettuale. Con ogni chiesa, ogni cappella, ogni pala d’altare, ogni fonte battesimale, pare che i papi vogliono anzitutto fare un monumento a se stessi e pensino più alla gloria propria che a quella di Dio. Sotto Leone X (1513- 1521) la vita di corte giunge all’apice, la Curia romana sembra la corte di un imperatore, le case dei cardinali ricordano le cortiprincipesche, e quelle degli altri autorità ecclesiastici, le case aristocratiche che cercano di superarsi a vicenda in splendore.
Fra quei principi e dignitari della Chiesa, i più hanno tradizioni familiari di protezione: fanno quindi lavorare gli artisti per immortalare il proprio nome, sia col dono di opere d’arte alle chiese, sia costruendo e abbellendo i loro palazzi.
I ricchi banchieri della città, primo fra tutti Agostino Chigi, amico e protettore di Raffaello, si sforzano di non essere da meno nel mecenatismo; essi accrescono l’importanza del mercato artistico romano, ma senza imprimervi alcun carattere particolare. Diversamente da quel che accade nelle altre città, prima fra tutte Firenze, dove la classe dominante è in complesso omogenea, l’alta società romana si compone di tre gruppi nettamente distinti; il più importante è la Curia, con i congiunti del papa, l’alto clero, i diplomatici italiani degli stranieri e le mille altre persone che partecipano della magnificenza pontificia. Gli appartenenti a questo gruppo sono generalmente i più ambiziosi e i più ricchi protettori dell’arte. Un secondo gruppo comprende i grandi banchieri i ricchi mercanti, per i quali quella prodiga Roma, centro della potenza finanziaria dei papi, costituisce la migliore occasione immaginabile. Il banchiere Altoviti, è fra i più generosi amici dell’arte di quell’epoca, e per Agostino Chigi lavorano, tranne Michelangelo, il nemico di Raffaello, tutti gli artisti celebri del tempo: oltre Raffaello, egli impiega il Sadoma, Baldassare Peruzzi, Sebastiano del Piombo, Giulio Romano, Francesco Penni, Giovanni da Udine e molti altri. Il terzo gruppo comprende i membri delle antiche famiglie romane oramai impoverite, escluse o quasi, dal nuovo mecenatismo artistico, esse mantengono il lustro del nome, solo grazie ai matrimoni con i ricchi borghesi e cioè provocano una fusione sociale simili, sebbene meno ampia, a quella già avvenuta a Firenze, e altrove, in seguito alla partecipazione della antica nobiltà agli affari della borghesia. Agli inizi del pontificato di Giulio II possiamo accertare la presenza stabile in Roma di otto o dieci artisti al massimo; venticinque anni dopo, alla compagnia di San Luca appartengono 124 pittori, dei quali però i più sono semplici artigiani che, attratti dalla richiesta d’artisti della Curia e dei cittadini ricchi, affluiscono da ogni luogo d’Italia. Se è innegabile che prelati e banchieri ebbero molta importanza come committenti per lo sviluppo della produzione artistica, è soprattutto determinante per l’arte cinquecentesca e il configurarsi del suo stile il fatto che Michelangelo quasi esclusivamente e Raffaello per lo più abbiano lavorato per il Vaticano. Solo qui, al servizio del papa, si poteva sviluppare quella “maniera grande” di fronte alla quale le tendenze delle altre scuole locali hanno un carattere più o meno provinciale. In nessun altro luogo noi troviamo questo stile elevato, esclusivo, così profondamente permeato di cultura, così totalmente dedito alla soluzione di elettissimi problemi formali. L’arte del Quattrocento poteva ancora, magari fraintesa, destar l’interesse di categorie più vaste; i poveri e gli incolti potevano sentirsene attratti, anche se per motivi non propriamente estetici: con l’arte nuova le masse non hanno più rapporti. Quale senso avrebbero avuto per loro la Scuola d’Atene di Raffaello e le Sibille di Michelangelo, anche se per caso le avessero viste? Ma appunto in opere come queste si attuò l’arte classica del Rinascimento, di cui si vuole celebrare la validità universale, ma che in verità si rivolgeva a un pubblico più ristretto che ogni arte precedente. Certamente il suo pubblico era ancor più limitato di quello della classicità greca; ma, al pari di questa, la nuova classicità, ad onta della sua fortissima ambizione stilizzatrice, non tralasciava, anzi esaltava e compiva, le precedenti conquiste del naturalismo. Come le sculture del Partenone son più “giuste”, più rispondenti alla comune esperienza che non i frontoni del tempio di Zeus a Olimpia; così nelle opere di Michelangelo e di Raffaello si riscontrava una libertà, un’evidenza, una naturalezza maggiore di quella dei quattrocentisti. In Italia non c’è in tutta la pittura anteriore a Leonardo una figura umana che, paragonata a quelle di Raffaello, Frà Bartolomeo, Andrea del Sarto, Tiziano, Michelangelo, non appaia ancora un po’ angolosa, rigida, impacciata. Per quanto giustamente osservate nei particolari, le figure del Quattrocento non sono mai ben salde sulle gambe, i loro movimenti sono intralciati e costretti, le membra scricchiolano e s’inceppano nelle giunture, i rapporti con lo spazio sono spesso contraddittori, il modellato è insistito, la luce artificiosa. Le aspirazioni naturalistiche del Quattrocento toccano nel Cinquecento la loro maturazione, ma l’unità storico-stilistica della Rinascita non si manifesta solo nel fatto che il naturalismo del Quattrocento si continua direttamente e si conclude nel secolo seguente, ma anche in quest’altro fenomeno e cioè che quel processo di sempre più forte stilizzazione che porta alla classicità cinquecentesca ha il suo inizio alla metà del Quattrocento. Uno dei concetti più importanti della classicità, la definizione della bellezza come armonia, è già formulato dall’Alberti; egli pensa che la natura dell’opera d’arte è tale che nulla vi si possa togliere o aggiungere senza pregiudicare la bellezza. Quest’idea che risale ad Aristotele, e che l’Alberti ha ripreso da Vitruvio, resta una tesi fondamentale dell’estetica classicista. Come si collega questa relativa unità della visione artistica, il classicismo che nasce nel Quattrocento, il proseguirsi del naturalismo nel Cinquecento, con le variazioni sociali del Rinascimento? Nel suo fiore, esso è ancor sensibile e fedele al vero, mantiene, anzi accentua, i criteri empirici della verità artistica, evidentemente perché, come l’età classica della Grecia, pur con la sua tendenza conservatrice, è ancora un tempo essenzialmente dinamico, in cui il processo di ascesa sociale è ancora aperto, né possono ancora svilupparsi convenzioni e tradizioni definitive. Tuttavia lo sforzo per arrestare il processo di livellamento sociale e bloccare ogni ulteriore ascesa è già in corso fin da quando la borghesia è giunta alla sua meta e si è confusa con la nobiltà; a questo punto nel mondo quattrocentesco cominciano a farsi strada le tendenze classicistiche. Poiché la conversione del naturalismo al classicismo non si compie a un tratto, ma dopo lentissima preparazione stilistica; se si parte dai fenomeni di passaggio come l’arte di Leonardo e del Perugino, si avrà l’impressione che il mutamento avvenga senza controlli, senza salti, quasi per logica necessità l’arte del primo Cinquecento apparirà allora nient’altro che la sintesi delle conquiste quattrocentesche, come il passaggio dall’arte antica alla paleocristiana, o dal romanico al gotico, implicano tanti elementi radicalmente nuovi, che non si può spiegare in generale ogni filosofia o idealismo di stile più recente come semplice antitesi dialettica del precedente o come sintesi delle sua aspirazioni: si esige una spiegazione che risalga a motivi già fuori del campo stretto dell’arte e che trascendano quello che è semplice sviluppo stilistico. Tuttavia il trapasso dal Quattrocento al Cinquecento è cosa diversa. Qui lo stile muta quasi senza frattura, proprio come continua è l’evoluzione della società. Pure non si tratta di un processo automatico, come fosse una funzione logica con coefficienti interamente noti. Se alla fine del Quattrocento, per qualche circostanza che noi non possiamo immaginare, la società si fosse sviluppata diversamente, se per esempio, invece del consolidarsi delle tendenze conservatrici, fosse intervenuto un cambiamento economico, politico o religioso, certo anche l’arte vi avrebbe corrisposto con un diverso indirizzo, e questo nuovo stile avrebbe sempre rappresentato una conseguenza “logica” del Quattrocento, anche se tutt’altra da quella rappresentata dal classicismo. Infatti volendo applicare un generale all’evoluzione storica il principio della logica, bisognerebbe almeno concedere che una costellazione storica può avere più conseguenze “logiche” divergenti. Gli arazzi di Raffaello sono stati chiamati il Partenone dell’arte nuova, se l’analogia si può ammettere, occorre però che le somiglianze non facciano dimenticare l’immensa distanza che corre fra la classicità antica e quella moderna. Di fronte all’arte greca, la classicità moderna manca di calore e di spontaneità; già nel Rinascimento essa ha un carattere derivato, retrospettivo, più o meno neoclassico. Vi si rispecchia una società che, satura di reminiscenze della romanità eroica e del Medioevo cavalleresco, suggestionata da un sistema etico artificioso e dalle convenzioni sociali, mira a sembrare quel che realmente non è, stilizzando il proprio modo di vita secondo tale finzione. Il Rinascimento nel suo fiore ritrae questa società com’essa vuol vedersi ed essere veduta. Non c’è un tratto, in quell’arte, che a un’indagine stringente non riveli l’esaltazione del suo ideale di vita; aristocratico e conservatore, che si basa sulla stabilità e la durata. Sotto un certo aspetto, il formalismo dell’arte cinquecentesca non è che un corrispettivo del formulario dell’etica e del galateo, che la classe dominante s’impone. Come l’aristocrazia e i circoli di costume aristocratico sottomettono la vita a un canone formale che la protegga dall’anarchia del sentimento, così l’arte assoggetta il sentimento alla censura di salde e astratte forme impersonali. Per quella società, nella vita come nell’arte, il più alto precetto è la padronanza di sé, la repressione degli affetti, il freno della spontaneità, dell’ispirazione, dell’estasi. I sentimenti ostentati, le lacrime e le smorfie di dolore, i deliqui, il lamentarsi e il torcersi le mani, insomma quell’emotività borghese che nel Quattrocento era un residuo del gotico tardo, scompare dall’arte cinquecentesca, Cristo non è più un martire sofferente, ma torna ad essere il re dei cieli, superiore a ogni umana debolezza, Maria senza lacrime né gesti, contempla il figlio morto, anzi anche verso il Bambino reprime ogni tenerezza plebea. Misura è, in ogni cosa, il motto del tempo. I precetti di ordine e disciplina trovano la più stretta analogia nei princìpi, cari all’arte, di sobrietà e ritegno. Leon Battista Alberti ha preceduto il Cinquecento anche nell’idea dell’economia artistica ed egli disse: “Chi molto cercherà dignità in sua storia, ad costui piacerà la solitudine. Suole ad i principi la carestia delle parole tenere maestà dove fanno intendere sui precepti; così in istoria un certo competente numero di corpi rende non poca dignità”. Alla composizione semplicemente coordinata subentra dappertutto il criterio dell’accentramento e della subordinazione. Ma non bisogna intendere il funzionamento della causalità sociale in termini semplicistici e credere quindi che il prevalere dell’autorità sui singoli nella realtà sociale si traduca senz’altro, nell’arte, nella tirannia di un ordine generale sulle varie parti della composizione e, per così dire, la democrazia dei singoli elementi vi si trasformi in una monarchia dell’idea compositiva fondamentale. Equiparare semplicemente il principio d’autorità nella vita sociale all’idea di subordinazione in arte porterebbe solo ad un equivoco. Tuttavia è naturale che a una società incline a comandare e sottomettere debba, anche in arte, piacere l’espressione della volontà, della disciplina e dell’ordine, che soggiogano la realtà, più che seguirla e interpretarla. E una società siffatta vorrà dare all’arte carattere di norma e di necessità, cercherà pertanto una “sublime regolarità” e attraverso l’arte vorrà provare l’esistenza di criteri e principi universalmente validi, inconcussi, intangibili, la presenza di un disegno assoluto e immutabile che governa le vicende del mondo ed è posseduto dall’uomo, se non proprio da ogni uomo. In armonia con tali idee, le forme dell’arte dovranno essere esemplari e apparir perfette e definitive, come vuol essere l’ordine politico del tempo. Nell’arte la classe dominante cercherà anzitutto il simbolo della calma e della stabilità, ch’essa persegue nella vita. Infatti il primo Cinquecento, sviluppando la composizione in simmetrie e rispondenze, costringendo la realtà nello schema di un triangolo o di un cerchio, non soltanto risolve un problema formale, ma esprime una tendenza alla stasi e il desiderio di perpetuarla. In arte la norma è stimata più della soggettiva libertà e il seguirla, qui come nella vita, appare come la via più sicura verso la perfezione. Essenziale a questa perfezione è anzitutto la visione totale delle cose, che si può conseguire no attraverso la semplice addizione, ma solo con una completa integrazione delle parti in un tutto. Il Quattrocento ha rappresentato il mondo come un interminabile fluire, un divenire indomabile e infinito; l’uomo vi si è sentito piccolo e debole e gli si è arreso volontariamente e con gratitudine. Il Cinquecento vede il mondo come un tutto finito, la sua vastità è quella stessa, e non più che l’uomo comprende; ogni perfetta opera d’arte esprime a suo modo tutta la realtà concepibile. L’arte del primo Cinquecento è interamente mondana, anche nelle scene sacre essa realizza il suo stile ideale non già contrapponendo realtà naturale e realtà trascendente, ma creando fra le cose stesse della natura una distanza, che nella sfera dell’esperienza visiva suggerisce distinzioni di valore simili a quelle che esistono nella società fra l’aristocrazia e il popolo. La sua armonia riflette l’utopistica immagine di un mondo da cui ogni lotta è esclusa, non perché vi regni un principio democratico, ma al contrario, uno autocratico. E sue creazioni rappresentano una realtà superiore, più nobile, sottratta al temporaneo a e al quotidiano. Il suo più importante principio stilistico è quello di limitare la composizione all’essenziale. Ma che cos’è questo essenziale? È il tipico, il rappresentativo, l’eccezionale, che assume efficacia soprattutto per il potenziamento unilaterale che subisce. Per contro, non è essenziale ciò che è immediatamente concreto, accidentale, particolare, individuo, insomma proprio quello che per l’arte del Quattrocento appariva più interessante e sostanziale. L’aristocrazia del primo Cinquecento crea la finzione di un’arte eternamente valida, “eternamente umana”, perché vuol credere eterno e immutabile anche il proprio valore. In realtà è un’arte anche questa legata al tempo, limitata e transitoria nei suoi criteri di valore e di bellezza, alla pari di quella di ogni altra età. Poiché anche l’idea d’eternità è un prodotto del tempo e la validità di una concezione assoluta è relativa quanto quella di una concezione dichiaratamente relativa. L’arte cinquecentesca è strettamente legata al tempo e alle condizioni sociali, ideale è il modo di comportarsi di una persona nobile e onesta detta Kalokagathìa. Nessun altro rivela con altrettanta evidenza come il concetto di bellezza dipenda dall’ideale umano dell’aristocrazia. L’importanza attribuita dall’aspetto fisico con è una novità del Cinquecento, né un segno di mentalità aristocratica; già il secolo precedente, opponendosi allo spiritualismomedioevale, aveva guardato con occhio appassionato all’aspetto fisico dell’uomo, ma solo nel Cinquecento la bellezza e la forza fisica divengono espressione perfetta della bellezza e del valore spirituale. Il Medioevo sentiva come termini contrapposti e inconciliabili lo spirito incorporeo e il corpo privo di spiritualità: contrasto più o meno accentuato, ma sempre presente al pensiero degli uomini. Per il Quattrocento l’inconciliabilità di spirito e corpo perde significato; il valore spirituale non è ancora incondizionatamente legato alla bellezza fisica, ma non la esclude. La tensione che tuttavia qui esiste ancora fra doti intellettuali e fisiche scompare del tutto dall’arte del primo Cinquecento, secondo le premesse di quest’arte appare, ad esempio, inconcepibile rappresentare gli apostoli come volgari contadini o semplici artigiani, al modo del Quattrocento, spesso così gustoso. Santi, profeti, apostoli, martiri sono ormai figure ideali, libere e grandi, possenti e dignitose, gravi e patetiche, stirpe d’eroi di una bellezza piena, matura, sensuale. Nell’arte cinquecentesca non solo ritroviamo i gesti pacati, gli atteggiamenti calmi, i movimenti liberi, ma anche la forma vera e propria è mutata: la forma, snella, smorta nell’arte gotica, la linea spazzata, scattante nel Quattrocento, acquistano una fluidità, una sapienza, una sonorità, uno slancio retorico, e in verità una perfezione, che era stata solo dell’arte classica. Ora gli artisti non amano più i movimenti brevi, angolosi e affrettati, l’eleganza ostentata e scoperta, la bellezza gracile, giovanile, acerba delle figure quattrocentesche. Essi celebrano l’apice della potenza, la maturità degli anni e della bellezza, rappresentano l’essere, non il divenire, lavorano per una società giunta alla sua meta e ne adottano i principi conservatori. Il rigore formale del primo Cinquecento è tuttavia rimasto una costante tentazione per le epoche successive; ma a prescindere da effimeri movimenti, per lo più artificiosi e d’importanza puramente culturale, esso non riuscì mai più a prevalere. Si è tuttavia rivelato la più importante sottocorrente dell’arte moderna; infatti, sebbene il rigido formalismo, tendente al tipo e alla norma, non abbia potuto affermarsi contro il radicale naturalismo moderno, il Rinascimento ha però reso impossibile un ritorno alla forma inorganica, paratattica, additiva dell’arte medioevale. A partire dal Cinquecento un’opera di pittura e di scultura è per noi un’immagine sintetica della realtà, colta da un unico punto di vista, forma suscitata dalla tensione fra il vasto mondo e il soggetto che vi si contrappone come principio dell’unità. Questa polarità fra arte e mondo si venne di tempo in tempo attenuando, ma non scomparve mai. In essa consiste la vera eredità del Rinascimento.
M° Monica Isabella Bonaventura
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