LEE MILLER

Degli scarponi sporchi di fango hanno lasciato la loro impronta su di un anonimo tappetino bianco. Le piastrelle candide e la dozzinale statuetta di Venere sono le mute testimoni di ciò che sta accadendo: Lee Miller, controparte in carne ed ossa dell’icona di Milo, sta lavando via il dolore acre di Dachau dal suo corpo eburneo. L’immagine in bianco e nero non toglie nulla, aggiunge nel suo fascino senza tempo innumerevoli significati a questo segreto rimasto sepolto per decenni in una polverosa soffitta inglese.

In una sola immagine l’ex femme fatale della moda internazionale, consegna alla storia tutte le storie della sua ecclettica e multiforme vita, ciò che era stato si cristallizza, ciò che sarebbe stato si intravede in nuce nel bagliore degli occhi che si fa opaco e lontano, come un presagio del suo tormentato futuro.

Lee Miller, al secolo Elizabeth “Lee” Miller,Lady Penrose nell’ultimo capitolo della sua vita, fu una modella, una fotografa unica nel suo genere formatasi alla scuola surrealista del suo amante Man Ray e cresciuta artisticamente nei più fervidi dei giardini di idee del primo dopoguerra: Parigi. Qui si nutrì della fecondità dei più eminenti avanguardisti del tempo, tutti abilmente orchestrati dall’anfitrione per antonomasia, Pablo Picasso. Lei che fu figlia, amante, madre, sposa, fu tutto ciò e nulla del genere, fu più della somma delle molteplici donne che l’hanno composta, sfuggente come la sottile sabbia del deserto che non fu in grado di trattenerla nella sua partesi da Lady Bay, ostinata come le bombe che dilaniavano Londra mentre lei continuava a fotografare, vivere, scrivere di moda e di morte. Come la lunga scia lasciata da una rara cometa la sua magia si spense all’impatto con il fango di Dachau, la sua presenza nelle fasi di ricognizione di ciò che si spalancava oltre le porte dei limiti umani sperimentati dai nazisti sul popolo ebraico e non solo, sfociò in un reportage fotografico per il suo mecenate storico: Vogue.

Negli scatti di Lee il surrealismo, sperimentato nella scatenata stagione parigina, incontra la realtà nei pattern di morte, nelle baracche della solitudine e nelle docce della vergogna. Lo schianto tra vita, morte, inconcepibile e assurdo non è spiegabile a chi quelle immagini si trova a vederle dall’altra parte dell’Oceano, è necessario gridare con tutta la voce e la rabbia che si ha in corpo “è tutto vero!” alle lettrici della patinata rivista di moda.

In “burned bones” si manifesta una evidente dicotomia, manichea nel suo essere estrema, tra vita e morte. Una impercettibile linea, sfumata dal sole che avanza o dalla tenebra che retrocede, divide chi, per curiosa scelta del fato, è stato destinato a rivivere i giorni di prigionia per gli anni a venire e chi, giace per l’eternità nella pace dettata dall’assenza di dolore. Ritrarre solo una parte del corpo dei sopravvissuti, come in una sinoddoche visiva, risulta essere molto efficace. Lee ci permette di vedere l’orrore in modo frammentato per renderci consapevoli poco alla volta dell’immensità dell’incommensurabile. In altri scatti, sempre facenti parte del reportage “German are like this”, una guardia SS emerge dall’acqua, uno scarto di una visione socio-politica al declino; una catasta di cadaveri vengono visti, non guardati, con indifferenza dai sopravvissuti. L’assenza di espressione sui volti dei salvati, nei riguardi dei sommersi, ci da un’informazione potentissima: l’abitudine a fissare l’abisso.

Lee non sarà mai più la stessa dopo la restituzione all’umanità di queste foto.

Verrebbe da pensare che chi incontri il male puro, come l’entropia di ogni bene, non possa più rivedere la luce del sole senza le lenti scure di quello che oggi chiamiamo disturbo post traumatico da stress. Lei, come molti altri increduli testimoni di questo ed altro genocidi, venne inghiottita da un fitto strato di nebbia, sua amica e compagna negli anni estremi della sua vita impedendole di essere la madre che avrebbe voluto essere. Alla fine dei suoi giorni, quando le luci del tramonto di un esistenza tormentata si spegnavano sulla visione della sua nipotina, immagine di un futuro gravido di promesse, il turbine di oscurità si liberò nell’atmosfera e, finalmente, si dissolse.

di Valentina Paolino

 

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